Brevi cenni storici sulla organizzazione dei manifattori durante la fabbrica dell’acquedotto di Livorno

(I documenti  riprodotti provengono da l’Archivio di Stato di Livorno “Fondo depurazione degli acquedotti”)

Chi lo edificò

Nel luglio 1793, quando già molte persone  erano impiegate nell’indotto e nei cantieri    aperti lungo il percorso del costruendo acquedotto di Livorno, la situazione economica in tutto il Granducato di Toscana non era certo delle migliori

La gravità del momento indusse il consigliere Schmiweiller a chiedere al governatore di Livorno Seratti, di intervenire presso il direttore dei lavori, ingegner Salvetti, acciò sia in qualche forma provveduto alla sussistenza di lavoratori giornalieri, licenziati dalle Reali Fabbriche, impegnandoli subito o anche in appresso, nei lavori di costruzione della grande opera.

Interpellato in merito dal Governatore Seratti Il Salvetti così illustrò la situazione: ”Sono in dovere di esporle che lo stato attuale dei lavori del nuovo acquedotto di Livorno, non permette di poter impiegare dei manifattori che sento siano d’avanzo allo Scrittoio delle Reali Fabbriche.

…Devo far irrilevare che i lavori son dati in cottimo a misura a tre diversi capi mastri, i quali non si possono costringere a prendere degli operai a modo di altri, trattandosi del loro interesse e le operazioni per lista, e per conto dell’impresa convien limitarla ai meno casi possibile per non si esporre ai soliti pericoli….”

Attratti dalle molteplici possibilità di lavoro legate alla costruzione di questa grande opera,  giunsero altri pigionali o braccianti, oltre a quelli già numerosi da tempo presenti nella zona. Le possibilità di occupazione per loro infatti erano innumerevoli: nei boschi, nelle cave,  negli scavi, nelle fornaci, oppure come manovali; insomma in tutte quelle attività nelle quali non era richiesta mano d’opera specializzata, ma semplice manovalanza. Quando, in occasione di una sua visita ai lavori nei vari cantieri, il Granduca lasciò una mancia di quattro rusponi da distribuire tra i lavoranti, questi erano una vera moltitudine; nel solo cantiere Bonamici  nei pressi di Livorno, ad esempio, lavoravano 13 muratori, 28 manuali, 1 guardia dei materiali, 11 barrocciai, 4 cavatori di sassi, 12 manualini, 8 sterratori. È facilmente ipotizzabile l’impatto sociale provocato dalla presenza di tanti uomini, spesso poco più che bambini, estranei alle consuetudini locali e occupati in modo non continuativo, giunti in un territorio abitato da poche centinaia di persone (nelle Parrane nei primi anni dell’ottocento erano residenti circa cinquecento persone, quasi esclusivamente dedite alle attività agricole).I pigionali addetti ai lavori dell’ acquedotto, che in altri momenti si dedicavano quasi esclusivamente ai lavori agricoli, nei periodi di maggiore richiesta come la raccolta e trebbiatura del grano, dovevano essere sorvegliati e incentivati perché non abbandonassero il proprio lavoro nel cantiere per dedicarsi al lavoro nei campi per loro più abituale e congeniale.

Questa massa di lavoratori agricoli, composta prevalentemente da famiglie di miserabili, era piuttosto irrequieta e turbolenta, temuta dai funzionari statali come sovvertitrice dell’ordine pubblico, dai proprietari e perfino dagli stessi mezzadri per le ruberie e le devastazioni provocate nelle campagne del Valdarno Meridionale da questa orda di disperati.

Parte delle maestranze, impiegate fin dall’installazione dei cantieri nelle colline, apparteneva a famiglie da tempo residenti nella zona: Martelli, Mazzoncini, Menicagli, Fancelli, Pupi, Del Punta Falchini, Tonarini, ecc…

Nei cantieri ubicati nei pressi di Livorno e Bellavista, lavoravano persone dai cognomi non riconducibili a famiglie locali (Fanelli, Caluri, Ferrosi, Becucci, ecc...). poiché questi cantieri erano affidati a capimastri provenienti da altre città, parte delle maestranze certamente proveniva dai loro stessi luoghi di residenza: Livorno. Pisa e Firenze.

Mentre gli operai abitanti nella zona potevano recarsi ogni mattina sul luogo di lavoro, quelli che provenivano da località distanti, non essendovi mezzi di trasporto, né strade agevoli, erano costretti a stabilirsi vicino ai rispettivi cantieri.

Prima di dare inizio alla costruzione, poiché non esistevano nella zona abitazioni a sufficienza per alloggiare un così alto numero di persone, furono edificate, vicino ai cantieri, diverse stanze provvisionali nelle quali alloggiare gli operai.

Alcune furono costruite nei primi mesi del 1793: sul poggio intermedio alle vallette prossime alle case dei poderi delle Porcherecce di proprietà della Fattoria di Limone.

Nell’agosto dello stesso anno, sul terreno di proprietà di Domenico Menicagli, presso la Castellaccia a Parrana San Giusto, Michele Orlandini, fattore dei Piccatio, su incarico del Salvetti,  fece costruire una stanza per comodo degli opranti. Alla costruzione presero parte: Giovanni Menicagli, incaricato di portare con le bestie la rena ed i laterizi; Giovanni Pedoja, muratore; Francesco Tani e Carlo Farchini, manovali; Giuseppe Menicalli a portare acqua e  la moglie del Farchini a  portare pietre.

La paga giornaliera era:

    per il muratore £ 2.6.8, 

    per i manovali £ 1.5, 

    l’opre con le bestie £ 2 e 8 denari.

La moglie del Falchini, alla quale era stato assegnato uno dei lavori meno qualificati, ma molto  faticoso, ogni 4 giornate di lavoro riceveva solo £ 3 (sic!). Anche sul Poggio Della Serra e dei Sodoni di Cordecimo, furono costruite delle stanzette, dove alloggiare gli operai. Il capomastro Martelli, addetto al cantiere nei pressi di Colognole, invece affittò da Giuseppe Grechi una casa per il ricovero delle giente, per la quale nel mese di maggio del 1800 pagò £ 10 di pigione.

Ai propri operai forniva, oltre l’alloggio anche dei letti corredati .

I lavoranti, però evidentemente più numerosi di quanti ne potessero ospitare le stanze provvisorie, venivano anche sistemati in tende per comodo degli opranti oppure in capanne di paglia e legnami o di manne di canne palustri.

Gli operai dormivano su sacconi riempiti di paglia e su stuoie, anche se in alcuni casi venivano noleggiati letti per uso dei muratori.

Curioso rilevare la differenza ”del luogo sul quale riposarsi“ tra le varie categorie di addetti; il giaciglio di coloro che invigilavano all’esecuzione dei lavori consisteva in: un letto e una materassa di lana di Barberia, capezzale o guanciale, un coltrone di mesero di Cipro, un saccone con la balza,  coperte bianche a opera in quattro teli e sua frangia attorno.

Le persone addette alle livellazioni nelle Parrane vennero alloggiate nell’abitazione da Giò Ascanio Pupi alle quali egli forniva anche il vitto. Dal I al 14 agosto 1796  furono pagate al Pupi £ 43.6.8 per vitto e alloggio fornito a Francesco Chiesi (l’equivalente di oltre cinquanta giornate di paga data ad una donna).

La grandiosità dell’opera e l’epoca in cui i lavori ebbero il loro svolgimento, non lasciano dubbi sui molteplici tipi di attività soprattutto manuali, e la loro difficoltà di esecuzione. Ad esempio, gli operai addetti all’escavazione dei trafori, venivano calati all’interno delle gallerie attraverso i pozzetti di areazione, dentro un corbello grande, appeso ad una burbera, spesso da altezze considerevoli; inoltre nelle cave, veniva utilizzato esplosivo per estrarre il materiale occorrente ai vari lavori; da non tralasciare poi la considerevole altezza di alcuni ponti e la totale assenza dei mezzi meccanici che siamo abituati a veder utilizzare per l’esecuzione di simili opere. Il numero degli addetti ai lavori, le attrezzature rudimentali e la grande dimensione dell’opera, la cui costruzione avveniva in gallerie con continui pericoli di frane o su altezze rilevanti, ci fa supporre che non pochi debbano essere stati gli infortuni degli operai. Le nostre sono supposizioni, in quanto negli atti consultati non abbiamo rinvenuto alcun documento che potesse confermare quanto ipotizzato. Gli unici atti da cui abbiamo potuto constatare un danno subito dalle maestranze, sono due suppliche inviate dalla signora Pasqua Dati, direttamente al Granduca di Toscana Leopoldo II, i cui testi riportiamo sommariamente: Pasqua Dati, vedova del fu capo Maestro Muratore Francesco Dini serva e suddita umilissima di V.A.I e R. dimorante in Livorno da anni quaranta, ed abitando nella zona di San Matteo, ossequiosamente le rappresenta come il detto defunto marito lavorava ai condotti, e per essere stato troppo nell’acqua per assistere ai lavori, giacchè era quelli che in vigilare doveva, in quella occasione prese una forte malattia che lo condusse al sepolcro. Oltre al danno affettivo sofferto, a causa del miserabile stato l’infelice supplicante, rimasta senza sostentamento, nella avanzata età si ritrova costretta a languire nella più estrema miseria e a coricarsi sulla semplice paglia. Come se tutto ciò non fosse sufficiente, la signora Pasqua dovette subire anche la beffa :dal marito “aveva ereditato” cinque carte nelle quali si rilevava le opere pagate agl’opranti giornalieri con i propri denari del suddetto Defunto, che per supplirvi dovette impegnare quella meschina roba di sua proprietà. Dalle carte in possesso della vedova Dini, in favore del defunto, risultava ancora un credito di lire Duecentododici, che devono pagarglisi dalla comunità di Livorno per saldo dei suoi lavori… Si presentò  la vedova Pasqua Dini dal sig. Pasquale Poccianti per reclamare e ottenere come di giustizia il di lei avere. Consegnati i recapiti al Poccianti  (al momento direttore dei lavori), la signora Dini attese che le venisse pagata la somma di cui era creditore il suo defunto marito. Trascorso del tempo, senza che nessuno provvedesse a saldarle quanto dovuto, la povera donna fece ricerche delle carte da lei consegnate al Poccianti, il quale ora sotto un pretesto, ed ora sotto un altro  si ricusa di far dare esecuzione ad un tratto di giustizia e così fa languire la misera vedova esponente nella più estrema miseria. Non siamo state in grado, purtroppo,di rinvenire altri documenti che ci possano confermare il buon esito delle suppliche.

Berthold Brecht: Domande di un lettore operaio

Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?

Dentro i libri ci sono i nomi dei re.

I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?

Babilonia tante volte distrutta,

chi altrettante la riedificò? In quali case

di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?

Dove andarono i muratori, la sera che terminarono

la Grande Muraglia?

La grande Roma

è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi

trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio

aveva solo palazzi per i suoi abitanti?

Anche nella favolosa Atlantide

nella notte che il mare li inghiottì, affogarono

implorando aiuto dai loro schiavi.

 

Il giovane Alessandro conquistò l'India.

Lui solo?

Cesare sconfisse i Galli.

Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta

fu affondata. Nessun altro pianse?

Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi

vinse oltre a lui?

 

Ogni pagina una vittoria.

Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.

Chi ne pagò le spese?

 

Tante vicende.

Tante domande.

 

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